domenica 21 novembre 2010

Uccello in gabbia canta per amore?


Ciccio Er Parola era intento a ripulirsi il tartaro dai denti e il suo sguardo vagava, di là delle sbarre, verso l’orizzonte di antenne: lo stuzzicadenti era quasi fradicio, logorato dall’uso.  Tom Timoteo stava incidendo la buccia di un mandarancio con l’aiuto di una linguetta di SevenUp, facendo attenzione a non dare troppo nell’occhio.
Annibale Mai giocava a backgammon, da solo.
Giosuè, al suo primo giorno, se ne stava seduto in un angolo, zitto e buono come una novizia in chiesa che vuol far bella figura con la badessa, vanità di vanità; si sentiva impacciato come mai in vita sua, era nervoso e aveva sete ma non osava chiedere nulla per paura che una sua frase diventasse il pretesto per innescare una discussione con quegli uomini. Era tutto un equivoco.
Si stava facendo ora di cena. Il secondino col carrello già avanzava nel corridoio del braccio T sezione nove del carcere di massima sicurezza “Cesare Beccaria”. Il menù, a giudicare dall’odore che invadeva l’aria ogni volta che il coperchio a tenuta stagna veniva sollevato, quel pomeriggio prevedeva merluzzo al limone e cavoletti di bruxelles, bolliti, senz’olio. Pane a volontà. Annusando più attentamente l’aria, si rilevavano tracce di prezzemolo, ma poche.
Giosuè stava seduto sul bordo del letto, in silenzio. Era senz’altro un equivoco. Non c’era alcun dubbio. Non era il caso quindi di offrire il fianco alle provocazioni di quegli avanzi di galera. Anche l’avvocato era stato chiaro: gli inquirenti non avevano in mano un cazzo. Non c’era verso di uscire su cauzione. L’udienza preliminare era fissata per il mercoledì successivo. Era sabato. Mancava poco: per l’avvocato, per Giosuè mancava un’eternità.
Giovedì contava i minuti. Venerdì non si dava pace. Sabato era oggi.

I poliziotti erano venuti ad arrestarlo alle sette di mattina. Non aveva potuto neppure accendere la piastra elettrica sotto la caffettiera, preparata la sera prima, come d’abitudine. I poliziotti erano stati inflessibili. Giosuè aveva solo quindici minuti per lavarsi la faccia e mettersi addosso qualcosa di comodo. Una tuta, consigliavano i poliziotti. Giosuè che in tuta non era mai andato neppure in palestra - non essendoci tra l’altro mai neppure andato - aveva optato per un jeans a sigaretta color grigio topo e un cardigan di lana, grigio perla. Tra i due, una maglietta di cotone color rosa antico, stampata a fiorellini. Adesso il jeans si era rivelato troppo stretto, il cardigan pungente e la fantasia della t-shirt a dir poco oltraggiosa della prepotente mascolinità dei compagni di cella, dei quali uno, Er Parola, lo puntava con l’intenzione. La doccia in carcere si faceva la domenica, incrociamo le dita.
Alle nove erano già state assolte tutte le formalità e gli effetti personali presi in consegna, assieme ai lacci delle scarpe e ai bottoni del cardigan – per precauzione, contro il rischio di un intenzionale soffocamento. Per lo stesso motivo, nel carcere di massima sicurezza “Cesare Beccaria” si servivano, per frutta solo pesche snocciolate, mandaranci e uva o, al limite, purea di mele.
Alle nove e venticinque, percorso il breve tratto di corridoio che univa l’area amministrativa ai locali di detenzione vera e propria e attraversato il piccolo cortile interno fino al portone del braccio T e oltrepassate otto porte a sbarre fino a quella della sezione nove, Giosuè aveva detto addio alla sua libertà e piacere di conoscerti ai tre loschi figuri con cui avrebbe – per poco – diviso una cella quattro metri per tre: Ciccio Er Parola lo aveva guardato con l’intenzione; Tom Timoteo gli aveva stretto la mano frettolosamente; quanto ad Annibale Mai, nemmeno s’era alzato a presentarsi: intento com’era a giocare a backgammon, da solo.
Giovedì l’aveva trascorso a guardare l’orologio. Venerdì, tutto il giorno, non aveva fatto altro che ripetersi che non stava accadendo a lui. Sabato, cioè oggi, cominciava a domandarsi se fosse il caso di cominciare a fraternizzare, non fosse altro che per raccogliere materiali. Chissà che non ci uscisse un bello spunto per lavorare a una nuova sceneggiatura. Almeno quello.

venerdì 19 novembre 2010

Paola Caruso, ovvero, viva il lieto fine!



La vicenda di Paola Caruso si è conclusa con un finale felice, per una volta: le vittorie, un ripristino delle condizioni di salute dalla giornalista (che è la cosa più importante, in assoluto) e un incontro chiarificatore con la redazione del Corriere, dal quale, credo di aver capito, potrebbe essere uscito un contratto. Ma al cinico popolo di Internet, pare, i finali a lieto fine non piacciono. Forse ci si attendeva l’ennesima martire, o forse il significato della parola “chiarificatore” del distico “incontro chiarificatore” viene associato con un vago senso di sconfitta o di resa, come se confrontarsi con “l’avversario” sia un errore da esseri spurii, di per sé. E poiché a dare giudizi scevri di ragionamento, “di panza”, per usare un francesismo, siamo buoni tutti, vorrei provare a condividere qualche riflessione.

1) Già a poche ore dall'inizio dello sciopero della fame di Paola, i blog e i social network pullulavano di gufi: gente che, dopo nemmeno POCHE ORE, era stufa di sentir parlare di quella vicenda, argomentando che chi se ne interessava erano “pecoroni” ignari di ciò che facevano. Ma perché? Se leggo su Internet che c'è una giornalista (una GIORNALISTA) in sciopero della fame, tanto che l'indomani ne hanno parlato anche le agenzie, di quali altre autorevoli fonti ho bisogno, prima di condividerla? Mah.
2) Dal momento che la vita si svolge anche FUORI INTERNET, nel giro di pochi giorni, molte cose si sono mosse, soprattutto nei dintorni di Milano, credo; per esempio, Paola è stata invitata a partecipare a tavole rotonde, che sono un modo perfetto per discutere di un problema, mi pare, no? Uno parla, si confronta, impara cose che non sapeva, torna a casa con delle opinioni. Non so cosa sia, né chi ci sia dietro, ma anche L'ALG (Associazione Lombarda dei Giornalisti) ha invitato la Caruso a prendere parte a future iniziative.
3) Da un punto di vista strettamente “contrattuale”: ammesso che sia vero che la Caruso ha ottenuto un contratto, in che modo la vicenda avrebbe dovuto concludersi, se non in modo individuale? Forse che lei avrebbe potuto stilare un elenco di probi/ae viri/puellae e proporlo all'attenzione De Bortoli? O, meglio, PER PRINCIPIO, avrebbe dovuto rifiutare una proposta di contratto (così si sarebbe conservata casta e pura!) e da morta di fame la sua voce sarebbe stata più autorevole? 
4) Strettamente connesso al primo, non è che siamo allenati, anzi, ASSUEFATTI a forme di protesta perdenti in partenza, così che appena incontriamo battaglie che vanno a buon fine la nostra insopprimibile richiesta di lamentele è, inevitabilmente, frustrata e noi ci sentiamo comunque insoddisfatti? Perché uno per diventare un simbolo (anche temporaneo) deve essere necessariamente morto? Forse perché morendo ci sottraiamo al peso di sostenere, coi nostri discorsi e le nostre azioni, le altrui attese? Avrebbe forse Paola dovuto rifiutare il cibo sino alla morte? Forse sì, dal un punto di vista “purista”, e vengo all'ultimo punto,
5) MORENDO, Paola avrebbe attivato i giornali?! Quella sì che sarebbe stata una notizia degna di nota (Nessuna scrivania avrebbe potuto fingere di non aver ricevuto il take, perché se ne sarebbe parlato dalle Alpi alle Piramidi). Ma che sacrificio inutile! Dal momento che, tempo due ore e ci siamo già dimenticati di premier che vanno a mignotte (Vedi sistema Italia) e ex-presidenti di regione condannati per mafia (Vedi sistema Sicilia)!

Allora, scusate, sento puzza di supponenza promanare da tutti quelli che in queste ore reagiscono con travaglio alla notizia di un lieto fine: ed è la supponenza, tipica dei settori culturali, che consente ai grandi gruppi di assumere in partenza una posizione dominante rispetto ai singoli individui. In altre parole, non siamo capaci di fare gruppo (come fanno i metalmeccanici o i raccoglitori di pomodori, per dire) perché siamo troppo impegnati a ritenerci migliori degli altri. Insomma, è il narcisismo culturale che ci impedisce di essere forti, perché chi è narciso è anche snob e autocelebrato e chi è autocelebrato, spesso,  se ne infischia degli altri e di conseguenza è anche solo, e ricattabile.
Un’ultima cosa, adesso che tutto è finito bene: bisogna fare in modo che questa esperienza non rimanga isolata, perché il finale sia davvero lieto. Bisogna condividere quello che abbiamo imparato e fare gruppo. E per fare gruppo non è detto che serva sempre uno sciopero della fame. Quando vuoi, Paola incontriamoci in osteria!

giovedì 18 novembre 2010

Prologo



Stefano guardò in giù.
Ai piedi dell’alta quercia, la truppa di re Arturo al gran completo era schierata, in attesa del segnale. Gli alabardieri affilavano le asce, gli arcieri caricavan le arbaleste, i picchieri spiegavano le picche, e fino a dove era possibile distendere lo sguardo, dappertutto, si scorgevano eserciti in marcia, attirati dal richiamo dei suonatori di corno. Altri uomini, che si apprestavano a dar l’assedio. Gli sbandieratori sventolavano le insegne per far vento al re, accalorato da tutto quell’andirivieni, che gli stancava la vista.
«Chi più spende, meno spende, quando si tratta di belligerare», disse forte a Zaccaria, appollaiato sul ramo di sotto.
«Che volete farci? Ci s’emancipa, mio signore», rispose il sottoposto sovrastante.
«Vedo, vedo. Ah, che fiera gioventù!».
Era trascorsa ormai più di un’ora da quando i due fuggiaschi s’erano asserragliati in cima all’albero secolare, in compagnia del palafreniere Ruggero: di sotto borbogliavano pentoloni di pece e un gruppo di fanti trafficava intorno a un ariete di legno di ontano, con fare minaccioso. ‘Basta poco per cadere in disgrazia – rimuginava Stefano tra sé – È un attimo’. Il cavaliere Zaccaria volgeva lo sguardo corrucciato al cespuglio dietro al quale stavano imboscati i cavalli, Ciocio e Belforte, e sperava che il suo signore avesse un piano più che valido, per cavarsi da quell’impiccio.
«Infedele! Satanasso!», si sgolava il sire dabbasso.
«Ci toccherà di venir giù, presto o tardi», proferì Stefano, interrompendo le sue meditazioni. Il cavaliere Zaccaria non lo trovò un piano così ben congegnato, dopotutto. Di nascosto ai due nobiluomini, il giovane palafreniere Ruggero si sbellicava di risate, risuonandogli ancora nelle orecchie il tonante urlo del sovrano: «Adunanza sediziosa!», mentre scappavano a rotta di collo dalla Sala delle Armi, gettandosi da una finestra. 
«Non capisco – proseguì Stefano – come re Arturo possa temere noi rivoltosi. Con questo popò di armamentario! Guarda che razza di balista si trascina, laggiù!». Un’immensa catapulta sopraggiungeva, trainata da cento cavalli, ancora a molte tese di distanza ma inquietantemente rapida.
«Sono i rinomati eserciti del re, mio signore. – puntualizzò Zaccaria – Ogni nobilotto sborsa del suo, per la maggior gloria di Cristo»
«Con la sacchetta dei feudatari!». Di laggiù era tutto un gran rullare di tamburi, ma il sire udì lo stesso:
«Blasfemia! Che si scomunichi l’infedele! Seduta stante!», sbraitò il divino erede.
«E quando verrà il tesoriere?», chiedeva frattanto un barone a un marchese.
«Mai troppo presto – gli si diceva per risposta – sono fuori di un’enormità, nei riguardi dei miei fornitori!»
Stefano, con aria svagata, continuava a sguazzare nelle sue riflessioni: «Può mai l’elefante aver paura di un topolino? E anche loro, la gran massa titolata. Dovranno pur ricavarci qualcosa!»
«Si prestano – propose servile Zaccaria – in nome dell’ideale. Com’io, del resto!»
«Ruffiano. Ruffiano e trafficante. Dai retta, che di queste cose me ne intendo: uno di questi giorni, a belligerare saranno uomini al soldo. Allora per re Arturo sarà la fine! I soldati prezzolati da un momento all’altro baderanno ai fatti loro. Guerreggeranno per la ciccia e nulla più! Già adesso, guarda che aria annoiata hanno quei visconti, nell’angolo». Dabbasso, si sbadigliava.
«Mio signore, attento a quel che dite! Qui ci passano per lo spiedo senza manco il conforto di un po’ di salmoriglio!»
«Hai ragione, mio saggio Zaccaria. Del resto, avrei dovuto ascoltarti anche in merito a quella vertenza sindacale, contro il regio divieto di caccia».
«Mio signore, siate prudente: non siamo in contesto felice!»
«Giusto, Zaccaria. Il tavolo delle trattative è alla frutta»
«La congiunzione sfavorevole…»
«Non c’è trippa per gatti!».
Da sotto, salivano le rimostranze isteriche di re Arturo, rabbioso e furibondo:
«Ah, diavolaccio: azzarda ancora quel favellare da infedele! Schermidori! Punzonatelo di lance!».
La situazione cominciava a farsi spinosa. Se il giovane scudiero Ruggero, appollaiato tra due comodi rami nodosi, poteva crogiolarsi nel beato sonno delle classi subalterne, avendo affidato la sua stessa vita nelle mani dei due nobiluomini, non così quieto poteva dirsi Zaccaria. Dette una sbirciatina di sotto, facendo ben attenzione a non cadere, e quello che vide non gli sembrò per nulla rassicurante: le regali milizie avevano desistito con l’ariete, passando direttamente a una grossa e minacciosa motosega.
«Circolare, circolare! – disse un vigile urbano, disperdendo una folla di villici curiosi – Circolare, non c’è niente da vedere!». Del resto non era cosa di ogni giorno, veder dei ribelli sul ramo di un albero. Dopo tre scaramantici PaterAveGloria, così si rivolse al suo signore:
«Mi pare – esordì, rispettosamente – che non ci siano che tre modi, per trarsi da questo brutto impaccio…»
«Ti ascolto», disse Stefano, guardando lontano.
«…e il primo è presentare ricorso all’autorità competente…»
«Chissà se i cavalieri della tavola rotonda li faranno ancora. Non li ho più visti, davvero»
«…avendo cura di allegare tutta la certificazione richiesta, marche da bollo comprese».
«Ci vorrebbe una vacanza. No, meglio: ci vorrebbe di trasferirsi, e non tornare più!»
«Il secondo è fermarsi al semaforo, senza dare la precedenza»
«Mi sembra il minimo! Di questi tempi… Non ci resta che farci un po’ di strada, mio buon cavaliere. Prima che il mondo sia dei pedoni, e che diamine!»
«Terzo e ultimo, con il dovuto rispetto…».

Un filo d’aria gelata entrò dal finestrino, svegliandolo. Ci volle qualche secondo perché Stefano ricordasse chi era, e soprattutto dove aveva parcheggiato. Allungò le membra intorpidite nell’abitacolo, si asciugò un rivoletto di saliva sopra al mento e avviò il motore.

domenica 14 novembre 2010

Paola Caruso, giornalista precaria del Corriere della Sera in sciopero della fame. Come darle torto? L'assenza di prospettive è avvilente: mi fa rabbia e sono consapevole, anni di precariato e contratti/ricatti attendono anche me. Su Internet la vicende s'è diffusa a macchia d'olio, veloce come le critiche: che differenza fa, questo caso, coi tanti altri, analoghi, di precariato sommerso e non? Perché mobilitarsi? Perché, come scrive Olga Piscitelli, cane non mangia cane e nessuno dei giornali – in larga parte basati sul lavoro di giovani para-contrattualizzati – nessuno dei giornali, questa notte, scriverà di Paola.
Per seguire e diffondere la vicenda e monitorare il suo stato (come stanno facendo in tantissimi, tramite Twitter o Tumblr, con buona pace dei cani!):  qui tutti gli aggiornamenti da parte della stessa Paola.


















(Qui, la risposta di De Bortoli, per completezza d'informazione)

venerdì 12 novembre 2010

Cena in casa d'emigrati

Nonostante corressero brutti tempi, in casa Boccia non si dava mai il caso di una tavola delle feste che non fosse imbandita perlomeno a dovere. Più importanti delle regolamentazioni fiscali, delle vertenze sindacali, delle aliquote condominiali c’erano le sacre inviolabili eterne mediterranee leggi dell’ospitalità. Queste erano iscritte nel fardello genetico che il signor Boccia e sua moglie Elena si erano portati dietro partendosene dalle Puglie sposini freschi. A Binetto, il paesello di duemila anime in provincia di Bari nel quale Salvatore era nato nel 1951, si raccontava che, in tempo di guerra, uno stimato agricoltore fosse morto di stenti e privazioni dopo che un intero reggimento di bersaglieri aveva albergato in casa sua, dilapidando le riserve granarie e vitivinicole di un anno intero, e mandandolo in rovina. Quando il comandante del battaglione, avendo saputo dai braccianti che da bollire in pentola non restava che la gallina sull’aia e in rispetto dell’antico adagio per il quale l’ospite è maleodorante al terzo giorno, manifestò l’intenzione di dare agli uomini l’ordine di levare le tende, lo stimato agricoltore temette che in paese si potesse mormorare ch’egli fosse uomo di dubbio patriottismo e di mediocre asilo: fu così che, in un gesto inconsulto e disperato, strappò di mano all’ufficiale la carabina e puntò dritto al petto del volatile, col duplice vantaggio di farlo secco e cotto a puntino in un sol colpo, a detta dei paesani. 
Uomini di tal pasta avevano abitato le terre natie di Salvatore Boccia e, anche se questi non erano più i tempi e l’ospitalità diventava sempre più un disvalore - soprattutto nella provincia meneghina - comunque, almeno alle feste comandate, in casa Boccia non doveva mancare mai il companatico.
A questo rigido dettame s’era ispirata la signora Elena, allestendo il menù della cena. Se era vero, com’era vero, che il cane Chico avrebbe gioito del rosicchiare il suo ossobuco nella tranquillità del pavimento della cucina, ai commensali non sarebbe andata peggio: quello che Piero aveva creduto essere risotto – di animelle e verza, per la precisione – in realtà non era che una piccola parte del ripieno di una sontuosa faraona; uovo sodo e radicchio arrosto completavano la farcia. Come primo piatto, la signora Elena aveva servito un delicato tris di strscnat’ ‘ncap ‘a cavarola, con condimento di dentice fritto, broccoletti in pastella e seppioline di lago al Barolo. Tra il primo e il secondo, giacché si passava dal pesce alla carne, un leggero minestrone di fave per sciacquarsi la bocca e poi frutta e dolci a volontà: pandoro nero glassato, soufflé di pesche e amaretti, fruttini di marzapane, crema di mascarpone, tarallucci, vino. Così, con gran dispendio di calorie, si era giunti al momento del caffè. 

(Inizio del capitolo settimo)

giovedì 11 novembre 2010

Ho sentito il battito del tuo cuore

Era mattina presto. Sono certa di essermi ingannata perché ero stanca. Un'intera notte è trascorsa e non riuscivo a pensare. Non che il mio corpo fosse più sfinito di quello di lei. Lei ti ha vegliato troppo di più. Ero stanca, in ogni caso. La stanchezza gioca brutti scherzi. Ho sentito il battito del tuo cuore attraverso la mia mano. E mentre lei - un fuscello, pensavo che un leggero soffio di vento potesse farla fuggire via - mentre lei - una cosa piccola, da niente, poco più che un martin pescatore - mentre lei – che avrebbe dovuto volare via con il vento – lei, se ne stava lì, salda (a guidarla, l'esperienza secolare, vissuta milioni di volte nel suo DNA), io non credevo ai miei occhi. Ma dove corri? Dove vai? Non possiamo star qui accanto? Ancora per qualche minuto. Io lo sentivo, il battito.

«Andiamo, che  se s'irrigidisce non lo possono vestire!»
Ma dove corri? Dove vai?
Senza dubbio mi sono ingannata perché ero stanca. O forse perché una notte intera non è bastata per concepire il pensiero che mai più ne avrei vissuta una uguale, mai più. Un po' questo, un po' la stanchezza. Che cantonata! Ho sentito un battito di cuore attraverso la mia mano, le dita pulsare, la vita attorno riprendere il suo corso – è lecito fermarsi solo per un istante, prima di perdersi – ho sentito un battito di cuore solleticarmi il palmo della mano e, Cristo, mi sono sbagliata. Ho sentito il battito del mio cuore. Tu non c'eri più.


domenica 7 novembre 2010

'U Fedda


Si chiamava Gaetano Capitone, detto 'U Fedda, il Fella, non da un erroneo metafonico spostamento – forse da falla? - ma per l’abnorme, pelosa fetta di culo che traboccava dall’orlo dei pantaloni troppo larghi, caduti molto sotto alla vita. Quando la moglie, in un impeto d’intraprendenza osava farglielo notare, lui rispondeva fiero: Vieeeeru è che ho dimagrito?!
U’ Fedda feteva di panelleria, l’azienda di famiglia che gli era toccata dalla spartizione dei possedimenti paterni: a lui la friggitoria di Borgo Vecchio, una caverna maleodorante dal Paleolitico e forse prima; a Tony la barca, per uscire in mare, una bagnarola di assi fradice tenute insieme da ruggine e volontà di Dio; a Mariuccia niente perché era fimmina.
Nelle torride serate d’estate friggeva le panelle a petto nudo, offrendo allo sguardo atterrito dei turisti alemanni l’agghiacciante spettacolo di un seno oltre misura: l’invidia di tutte le preadolescenti del rione Tribunale. A volte dalla Cala spirava un leggerissimo scirocco: allora, grazie al caldo non così spietato U’ Fedda tirava fuori dal cassetto del comò il meglio della sua gioielleria e lo spargeva sul petto. La maggior parte delle volte, però, il vento si placava in pochi attimi e nel giro di due ore – anche a causa degli schizzi d’olio che gli rimbalzavano sulla pancia – il seno prospero di peli gli si riempiva di piaghe rosse e bolle, che lui sopportava, stoico.
Per verificare la temperatura dell’olio, affinché fosse perfetta per una frittura dorata e croccante, a scelta ci sputava o ci sudava su.

venerdì 29 ottobre 2010

La mia prima macchina da scrivere


Quando ero ancora piccola, un giorno, dentro a un negozio di giocattoli, desiderai ricevere dai miei genitori una macchina da scrivere. Non so se ne avevo mai vista una, prima, non so esattamente quanti anni avevo. Forse otto, dice mia madre.   No, questo non è il classico topos dell’aspirante scrittore esordiente produttore di primi capolavori già in tenera età. Io, infatti, la macchina da scrivere non la ricevetti per niente. Credo che quel Natale ci sia stata una casa di Barbie, o la sua cucina rosa piena di attrezzi full-set, o un gioco da tavola di quelli che stimolano l’apprendimento. Non ha importanza. Quello che conta è che per me, per lungo tempo, quello è stato un ricordo doloroso. Uno di quei rimpianti patinati, amplificati dalla lontananza nel tempo, la nostalgia di quello che sarebbe potuto accadere, di quanti percorsi sbagliati mi sarei potuta risparmiare se quel Natale avessi ricevuto quel regalo, la mia prima, piccola, colorata macchina da scrivere.
Soprattutto, era doloroso uno scenario che poi si sarebbe ripetuto spesso, anche in seguito: a lungo c’è stata una discrepanza di giudizi, su quella bambina di otto anni.



Certuni dicevano a bocca aperta che fossi la più vivace, effervescente, creativa e fantasiosa bambina che avessero mai incontrato: leggendaria una rilettura in chiave picaresca di un Cappuccetto Rosso della durata di quattro ore ininterrotte che lasciò interdetta ed esausta un’amica dei miei genitori. Certi altri non dicevano niente, e se dicevano qualcosa era per rinfacciarmi che facevo la brava solo in presenza degli altri; e che riguardo alla macchina da scrivere, bisognava vedere se avesse potuto occuparsene Babbo Natale.
(È vero, tuttora faccio la brava in presenza degli altri, se c’è una meta o la prospettiva di un premio o una scadenza che incombe. Quando sono da sola, quando non mi aspetta nessuno, nel migliore dei casi una pigrizia imbattibile mi priva di ogni entusiasmo, a meno che un demone inatteso non s’impossessi di me).
Non aver ricevuto la mia prima macchina da scrivere non mi ha impedito di aver un normale sviluppo cognitivo o un’infanzia felice. Non ha niente a che vedere con un trauma, uno di quelli tanto innocui quanto à la mode delle rampanti famiglie piccolo borghesi, come restare chiusi nell’ascensore per mezz’ora o perdersi al supermercato – quei bei traumi da bar, insomma, innocui e indolori. Non mi ha impedito certo di essere una bambina felice e amata.
Non mi ha sicuramente impedito di scrivere; quando avevo dieci anni, il mio primo romanzo lo progettavo così: la storia di una quarantenne, felicemente sposata ma che allo stesso tempo si sente soffocare e un bel giorno decide di divorziare, accettando di affrontare i commenti malevoli del vicinato, e poi scappa in Africa. Questa tendenza a inventarmi personaggi così lontani dalla mia esperienza quotidiana da rasentare l’inverosimile la coltivo tuttora: in certe storie è del tutto astratta e velleitaria, in certe altre mi obbliga a una ricerca dettagliata e mi conduce in direzioni che non avrei mai nemmeno immaginato.
Ho continuato a scrivere anche dopo, ma ho continuato anche a fare altro. Dopotutto, se i miei genitori non mi comprarono quella maledetta macchina da scrivere non è perché fossero genitori distratti o poco sensibili nell’aiutarmi a coltivare le mie inclinazioni: è che le mie inclinazioni si spandevano a raggiera lungo assi di sperimentazione continua, instancabile.
Costruivo case sugli alberi, medicavo i compagni feriti, surgelavo pupazzi di neve casomai arrivasse la primavera, dipingevo in continuazione, cantavo spesso, recitavo poesie e, qualche volta, intere battute nella compagnia di teatro amatoriale dei miei genitori, salvavo uccellini caduti, seppellivo uccellini deceduti, d’estate, andavo a nuotare con mio padre e mia sorella nella piscina del paese vicino dove c’erano anche vespe da cacciare! Dovevo imparare l’uncinetto da mia nonna prima che morisse, dovevo preparare le coreografie dei balletti che avremmo offerto al pubblico dei genitori seduti a prendere il fresco nel cortile sotto casa, dovevo impedire che mia sorella si sfracellasse il piede nei raggi della ruota, di nuovo. C’erano anche i compiti, ovvio.
Come sarebbe stato possibile capire che direzione avrebbe preso quel vulcano lunatico di bambina? Il Natale dopo avrei chiaramente voluto un cavalletto per le tele, quello dopo ancora un impianto per il karaoke.
Non credo che i bambini siano adulti in miniatura, ma retroattivamente mi sento legittimata a dire che nella bulimia creativa della bambina che ero c’era già in nuce il disturbo esistenziale della ragazza che sono - e dell’adolescente che sono stata prima di arrivarci.
Ho scoperto che anche il mondo fuori era confuso e disarmato come me, ed è stato consolante. Per molto tempo e in parte anche adesso la dimensione collettiva, il senso di appartenenza diacronico, l’energia delle battaglie sono stati un farmaco generatore di senso, una risposta al bisogno di scongiurare la solitudine, in quegli anni più odiosa del pensiero della morte. In parallelo, c’è stato un flirt col teatro che ho creduto potesse essere la mia strada: ma nella mia piccola città ogni insignificante scintilla di bellezza, paragonata allo squallore dello sfondo, viene osannata come la reincarnazione di Venere, mentre invece, nella metropoli, si smarrisce, nel rumore generale. Non si tratta di una dinamica centro-periferia: lo squallore, insegna il tempo alla bambinadulta, è endemico e trans-regionale.
Ho frequentato l’università, a Palermo, mi sono laureata in Lettere Moderne. Mi sono appassionata di fotografia, linguistica, storia e storia dell’arte. Ho avuto febbri editoriali. Ho imparato a scrivere con maggior continuità. Ho continuato a ripensare, ogni tanto, a quell’adattamento de I Miserabili di Victor Hugo, scritto per un famoso attore e regista che poi non mi ha neppure citata nella sua locandina o alla bellissima Parker regalata dai miei amici del liceo, i primi fornitori ufficiali di strumenti, finiti in un paio di quadernetti Pigna dentro a un’oscena storia di adolescenti drogati.
Adesso frequento un master di scrittura creativa, sono fortunata, ho l’obbligo di scrivere molto. Ieri sera ho ripensato alla mia prima mancata macchina da scrivere. Ogni volta che ci penso mi viene un piccolo nodo alla gola. Stamattina ci pensavo ancora e ho chiamato mia madre: le ho detto, Mamma, ti ricordi di una volta che eravamo con papà e Giulia in quel negozio di giocattoli? Ti ho chiesto una macchina da scrivere? Quanti anni avevo?
Lei mi ha risposto con la voce dolce che le esce quando qualcosa le dispiace davvero: «Avevi otto anni. La volevi, vero piccina? E torna piccina che te la compro». Sembra uno scherzo? È vero invece. Sono sempre quella bambina di otto anni. A lungo ho saputo fare per breve tempo così tante cose che l’unica che sapessi fare veramente non mi sembrava neppure nell’orizzonte delle possibilità. D’altronde fare lo scrittore non è mica un lavoro vero! Ho otto anni e mia madre mi sta comprando una macchina da scrivere che costa disumani, incredibili sacrifici. Quando le spedisco un racconto da leggere, lei mi telefona e dice: «Brava la mia bambina!»
Ho lottato tanto contro di lei, per far sì che mi riconoscesse indipendente e adulta e adesso non vedo l’ora di sentire che pronuncia questa frase. Stupido, no?
La mia confusione nasce dal non sapere chi sono, neppure adesso che dovrei essere adulta: ma al momento ho ottimi strumenti per cercare di scoprirlo. Sono fortunata, ho ancora un po’ di tempo per farlo. Se avrò la fortuna di poter svolgere questo lavoro, avrò tempo anche tutta la vita.

mercoledì 27 ottobre 2010

Supermarket China

«Hey! Molli l'osso! L'avevo vista prima io!»
«Ma è pazza? La tenevo in mano
da almeno un'ora! L'ho solo poggiata un attimo, per prendere quell'altra!»
«Beh, non avrebbe dovuto!»
«Ma questa è tutta scema!»
«Vada a lamentarsi con la proprietaria, alla cassa. Oh, ma guarda! Non capisce una parola. Peccato!»
«Che maleducata! Se la tenga pure!»
«Brava, vattene! Cretina!»
«Brava. Vattene! Guarda un po' che gente! Hey, guarda qui. Questa è proprio carina!»
«Sì. Quanto costa?»
«Mmm non c'è scritto. Ah, ecco. Costa trentanove euro»
«Quanto? Scherzi! No, è troppo cara!»
«Beh, sì. Un po' cara, però... Guarda che carina questa rifinitura qui!»
«E quella borsa, invece?»
«Wow! It's so cute!»
«Eh?»
«Adorabile!»
«Ahhh!»
«E questa? Questa quanto costa?»
«Solo ventidue euro!»
«Beh... beh... Non male»
«Perché non ti provi quelle scarpe, invece...»
«Ma no... ho bisogno di vestiti, di scarpe ne ho una montagna!»
«Guarda il prezzo, prima, sciocchina!»
«Tredici euro?! Ma è un affare!»
«Bellissime! C'è questo piccolo pezzo di filo cerato che esce fuori, prova a tirarlo via...»
«Ma no! Questo si brucia con l'accendino! Altrimenti si scuce la suola!»
«Hai ragione. Queste suole di oggi sembrano legate con lo sputo»
«Eh, già»
     «E quello  cos'è?»

«Laggiù? Il cartello dice 'articoli per la casa'»
«Andiamo a vedere?»
«Dai! Ma guarda quei cuscinoni! Sono un amore! Hey! Bambina! Attenta!»
«Signola? Mi scusi! Questa bambina è sua?»
«Oh! Ma che amore!»
«Signola, gualda che bambina pestale mio stivale nuovo di vacchina!»
«Non essere cattiva! Come ti chiami, piccola?»
«Scusi! Scusi molto!»
«Non è un amore? Come si chiama?»
«Anni Ye»
«Deliziosa!»
«Senti, stanno arraffando le teglie più belle, ti sbrighi o no?»
«Andiamo. Ciao!»
«Senti, vedi per caso il prezzo di quelle padelle salta-pasta?»
«Il cartellino è questo? Due euro»
«Due euro? Ma dai! No, ma questa anti-aderenza viene via con due lavaggi!»
«Sarà anche tossica!»
«La metto via?»
«Mettila... mettila via...»
«Queste invece le prendo!»
«Belle! Un po' grandi, forse»
«Vanno bene! A me il caffé piace lungo!»
«Che prezzo hanno?»
«Settanta centesimi l'una!»
«Le prendo anch'io»
«Brava»

[ Passa un tizio con un impermeabile abbottonato fino al collo. Sembra un taccheggiatore. ]

«Scusi? Ha perso qualcosa!»
«Uh?»
«Le è caduto quel... salsicciotto»
«Ah, grazie!»
«Ma... che cos'è?!»
«Intestino.  Nuovo di zecca!»
«Wow! E dove lo ha preso?»
«Laggiù. Guardi, in fondo a quel corridoio!»
«'Organi e protesi'»
«Andiamo a dare un'occhiata!»
«Incredibile!»
«Cosa?»
«Ci sono i fegati in saldo!»
«Ma no!»
«Che dici, lo prendo al nonno?»
«Bah, sì. Ha la sua bella età»
«Prima o poi potrebbe servirgli, no?»
«Chiaro»
«Allora lo prendo»
«Ma guarda prima il prezzo, mi raccomando!»









sabato 23 ottobre 2010

Giulia e Antonio in vetrina

- Rispiegami un po’ questa storia della fine del mondo…
Giulia giocherella con una ciocca di capelli: la arrotola attorno al dito sottile, smaltato di bianco perla. L’aria profuma di alghe e mortaretti. Antonio fissa distratto il movimento che trasporta i verdi pezzetti viscidi sulle onde, lento e costante. Il colore delle alghe Antonio lo può soltanto intuire, perché il cielo è buio; la linea dell’orizzonte si confonde con la fine dell’acqua. La Cala di Palermo è deserta.
- Nell’Ottocento si comincia a pensare che nel Medioevo, proprio allo scoccare dell’anno Mille, la gente avesse paura che tutto sarebbe 
finito. Antonio era sovrappensiero. <br /> tag
- Che ho detto?
- Che hai detto che?
Giulia sbuffa: - Non mi stavi a sentire, che ho detto?!
- Nell’Ottocento la gente aveva paura che tutto sarebbe finito…
Giulia lo interrompe, stizzita: <br /> tag- No, Antonio! Non hai capito niente: nell’Ottocento pensavano che la gente del Medioevo avesse paura che il mondo sarebbe finito! Allo scoccare dell’anno Mille! Nel Medioevo la gente neppure lo sapeva a che anno si era arrivati!
Antonio fissa il verde intuito dell’acqua. Dei piccoli pesci scintillano sotto la superficie, per un attimo, illuminati da un razzo, e spariscono subito dopo.
Giulia aspetta, in silenzio, un cenno che le faccia capire che Antonio ha capito. Antonio fissa il verde e non parla.
- Non capisco, mi fai una domanda e poi non stai a sentire la risposta?
- Ho sentito, ho sentito – dice Antonio – Nel Medioevo la gente pensava di essere spacciata.
- Secondo i romantici.
- Sì, secondo i… Secondo chi?
Giulia guarda Antonio e ride. – Secondo i romantici! Secondo gli storici dell’Ottocento!
- Come ti pare, dice Antonio.
Giulia lascia andare la ciocca di capelli arrotolata attorno al dito sottile e allunga le mani verso il viso di Antonio. Stiracchia la schiena e avvicina le labbra; vorrebbe baciarlo. Antonio non se ne accorge, getta le braccia all’indietro e la guarda, con la testa piegata di lato. È carina, pensa. Ma con le labbra protese così le vengono due minuscole pieghe ai lati della bocca. E ha anche un accenno di baffo. – Mpciù!, dice Antonio.
Stanno seduti sul bordo della piattaforma, coi piedi che penzolano in fuori, sull’acqua. Le barche ormeggiate li nascondono alla vista degli amici di Giulia, seduti sulle panchine del Foro Italico dalle piastrelle sgargianti, e qualcuna scheggiata.
- Ma perché non ti capisco quando parli?
- Che vuoi dire?
- Niente.
Giulia sta zitta e si china col busto in avanti, sporgendo il mento oltre le ginocchia: ma questa posizione le dà la nausea e sente il Cenone risalirle acido in gola.
- Ho sete. Voglio da bere.
Antonio fraintende e le porge la birra ormai sgasata. Giulia fa cenno di no con la testa. Antonio pensa che è strana, proprio strana. Cosa vuole manco lei lo sa.
- Basta bere. Mi viene da vomitare.
Antonio di tutto ha voglia, meno che di tenerle la fronte mentre pezzetti di spada grigliato e ananas flambée rimbalzano intorno e sulle scarpe sue e di Giulia.
- Aspetta… - Giulia respira a fondo – Aspetta… È passato.
- Grazie, Signore.
Antonio ha rimpianto l’aver accettato l’invito a casa dei genitori di Giulia dal momento in cui si sono richiuse alle sue spalle le porte dell’ascensore.
La madre di Giulia ha fatto di tutto per fingere di metterlo a suo agio. Ma Antonio lo sa che gli entusiasmi della signora Geraci si sono spenti non appena lui ha allungato la mano verso la stretta calorosa del Signor-Capofamiglia. Era sporca di grasso. Pochissimo, appena sotto l’attaccatura delle unghie; ma bastava a inquadrare Antonio e il suo lavoro di merda.
- Vedrai, ti piaceranno, aveva promesso Giulia al telefono. E lui si era lasciato convincere. Poi Giulia che apre la porta di casa, Giulia fasciata in un vestitino brillante mozzafiato. Giulia e le sue perle-di-fiume del cazzo. Il parquet, cazzo.
E la falsità, Cristo santo!, la faccia ipocrita con la quale la Signora-Madre Geraci aveva accolto la notizia che Antonio aveva mollato ragioneria alla seconda volta del secondo anno. Come se Giulia non gliel’avesse spiattellato già all’indomani del loro primo incontro, solo per il gusto di farla incazzare di brutto.
- … e oggi, pensa, se fosse vera la storia di quei dementi dei romantici, sarebbe un millennio esatto dalla prima fine del mondo!
Antonio ritira le braccia e volta le mani, per guardarsi i palmi. Sono sporchi di sabbia e impolverati. Se li pulisce sopra i pantaloni ma la sabbia s’infila dentro alle righe del velluto blu oltremare e la polvere gli lascia su entrambe le cosce striature di chiaro.
- Cristo!
- Non imprecare! …e quindi oggi saremmo spacciati anche noi, pensa! Magari qualche cretino di stregone o di astrologo ha sbagliato i calcoli di mille anni esatti e oggi davvero siamo tutti nella merda, altro che Millennium Bug, e cominciano a piovere dal cielo meteoriti e le astronavi dei Visitors sbarcano sulla terra e…
Giulia è sbronza e quando è sbronza è una mitraglietta, valla a fermare. Antonio si volta a guardare gli amici di Giulia: si allontanano in gruppo, qualcuno rimasto indietro tenta ancora di chiamarli, agitando le braccia, ma loro sono troppo lontani.
- Gli altri vanno via, Giulia…
- Falli morire ammazzati! Ah ah!
Un petardo fischia nell’aria, poi un altro, poi altri. La mezzanotte è vicina. La madre di Giulia a quest’ora è stonata di Martini e si accanisce al tavolo del black jack. Il padre magari rivolge un pensiero alla figlia: ma gli brucia solo il pensiero che Giulia non sia lì con loro. Non ha neanche alzato la voce quando lei li ha piantati lì prima del panettone farcito per raggiungere gli altri alle Cicale, dove il dj già scaldava i vinili. Solo ad Antonio sembrava così profondamente arrogante quell’aria di sfida con la quale Giulia aveva detto: - Io esco, stringendo il cappotto di cachemire sotto al braccio. Ai genitori di Giulia gliene fregava solo di rappresentanza.
- Senti, facciamo due passi? – domanda Antonio.
- Due passi dove? Tra poco è la fine del mondo, voglio morire alle Cicale!
Giulia si alza, si rimette il sandalo vertiginoso; la fa camminare così male, sembra una spogliarellista zoppa, pensa Antonio. La segue, gli seccherebbe di doverla recuperare in mezzo all’acqua.
Attraversando la strada, Giulia e Antonio si riflettono sulla superficie di una vetrina: il loro profilo si confonde tra le palle di vetro spruzzate di neve finta, di diverse misure. Antonio si sofferma ad analizzare l’immagine, ma è sparita: Giulia passa oltre. Rimane Antonio da solo a guardarsi negli occhi.
Restare soli – pensa – non è poi la fine del mondo.

lunedì 18 ottobre 2010

Breve siparietto per voce, mosca e rivoltella


Personaggi: Ei, Ela, Eso, il barista Tom, un cameriere, un uomo al bancone.


In una locanda malfamata del vecchio West, un pianoforte traballante restituisce honky-tonky e l’uomo al bancone guarda tutti di soppiatto. Ela avanza dal fondo del locale, dopo aver accennato un cenno al suo compare barbuto, seduto accanto alla sputacchiera. L’uomo, di nome Eso, finge di giocare al gioco delle tre carte con una manica di manigoldi, ma ha già captato il segnale.
Ela si avvicina a Ei, seduto al suo tavolo, in fondo alla sala; è chiaramente in un angolo buio.
Ei: (Bofonchiando tra sé) C’è una mosca nel mio whiskey… Cameriere, c’è una mosca nel mio whiskey!
Il cameriere col dito nel naso ha già troppe preoccupazioni per conto suo. Passa oltre, senza guardare. La locanda malfamata puzza di legno fradicio e donnacce. Ela solleva lieve uno zampetto stivalettuto e lo scaraventa con tutto il tacco sulla seggiola, di fronte allo sguardo allibito di Ei. Poi fissa gli occhi sulla mosca, agonizzante nel bicchiere. Ei ha lo sguardo imprigionato dallo zampetto di Ela e quasi quasi lo alzerebbe sul cosciotto, se non fosse che è un inguaribile timidone.
Ela: Sei straniero, Straniero?
Lo straniero non risponde tanto che Eso pensa per un istante che il piano ben congegnato per far fesso l’ennesimo fesso stia per andare in fumo. Ma il cosciotto di Ela è di una fragranza fragrante ed Ei è solo un po’ stordito. Viene dal vecchio Vecchio West, e lì non s’incontra facilmente una donna come Ela!
Ei: Che vuoi da me, femmina?
Ela: (Languida) Sei un bell’uomo, Straniero… Da dove vieni?
Ei: E che, non ci senti? Dal vecchio Vecchio West, vengo!
Ela: L’ha detto il narratore onnisciente e comunque era una conversazione prelogica, come parlare del tempo. Non si capiva?
Ei: No. E comunque, Femmina, quale mai potrebbe essere una conversazione logica, tra di noi?
Ela: Sarebbe logico non fare nessuna conversazione, Straniero.
Ela lascia cadere il cosciotto e s’avvicina avvinghiandosi alle spalle dell’uomo.
L’istinto dell’uomo inciterebbe alla fuga: una pollastra come Ela puzza di bruciato lontano un miglio; ma l’istinto istinto dell’uomo preme già dal basso dei pantaloni. Una femmina come quella puzza di pericolo, ma innesca la pesca.
Ei: Che vai cercando, Femmina?
Ela: Non è ciò che vado cercando io, è ciò che tu hai trovato!
Ei: Io ho già trovato quello che cercavo, un filone d’oro che sarà la mia fortuna…
L’uomo al bancone e il cameriere si scambiano un’occhiata significativa. Eso sferra un pugno al tavolo, ridacchia sotto i baffi e borbotta: “Pollo!”. Ei non s’accorge di nulla.
Ei: …e mi consentirà di comprare una casetta in Florida e di lasciare questo maledetto vecchio Vecchio West prima di quanto tu non riesca a sbatacchiare le tue maliarde ciglia!
Ela: (Sbatacchiando maliarda) Ma daaai! Quaaanto mi piacerebbe fuggire fuggiasca lontano da questa bettola!
Il barista Tom: Hey!
Ela: Scusa Tom! Dicevo… Lontano da questa bettola - ma gestita con garbo squisito! - e rifarmi una vita lontano da questo deserto deserto in cui sono venuta a cascare! Ma vedi quell’uomo barbuto laggiù? Mi tiene prigioniera, asserendo che io gli abbia ucciso non so che moschetta addomesticata, un dì, roteando il ventaglio… Così, vedi?
Ela rotea il ventaglio e due o tre calabroni calabri cascano giù, stecchiti. Ei s’immedesima.
Ela: Per questo mi ha tanto colpita, la tua mosca annegata nel whisky… Mi ricorda me stessa, prigioniera in questa prigione bigia.
Ei: (Colpito) Son più colpito del moschitto che annaspa e non capisco neppure il perché. Ma come potrei mai liberarti da questa bigia prigione in cui testè m’hai detto obbligata a risiedere stai?
Ela: Vedi quell’uomo, accanto a quella sputacchiera laggiù?
Ei: Sì.
Ela: Ecco. Soltanto l’ardito che ardisse affrontarlo potrebbe liberarmi da questa schiavitù!
Ei: Bene, bambina. Se è la libertà che vuoi, è la libertà che avrai… Ma prima vieni qui a scaldarmi le braccia in questa lunga notte di coyotes e di bourbon…
Ela si avvicina fremendo fremente, protende le labbra e – Bang! – si becca una rivoltellata in pancia. Eso scatta in piedi, a bocca spalancata. Una mosca si adagia sul suo dente d’oro.
Eso: Ma che diamine…?
Ei: Ah, canaglia! Volevate fregarmi!
Eso tentenna e tenta di mettere mano alla rivoltella ma Ei e più fulmineo e lo fulmina prima.  Ingolla il suo whiskey con tutta la mosca e s’accosta al bancone.
Uomo al bancone: (Porgendo a Ei un altro whiskey) Sei furbo, straniero…
Ei: Furbo e ricco. Quei due erano ricercati in quattordici stati e ora grazie alla taglia sulle loro teste potrò finalmente comprare quella casetta in Florida…
Uomo al bancone: E il tuo filone d’oro, 
?

Ei: Quale filone, Man?

Poco lucido abbordaggio




- Ho qualcosa a metà tra un calzino usato e un Laphroaig dieci anni incastrato tra le papille.

- Vieni fuori, fammi vedere, dice una voce che non riporta a nessuna delle facce incrociate durante la serata. Dolly si sciacqua il viso evitando lo specchio. Viene fuori. 
- Hey.
- Hey.
Una mano gigante sbuca da una manica tweed coloratissima e si allunga verso la sua spalla. Dolly avvampa pensando a che alito potrebbe mai avere in questo momento, poi la traiettoria del braccio devia leggermente.
- Hai un… Qualcosa t’è rimasto attaccato ai…

Dolly afferra una ciocca di capelli: un alieno color vinaccia le si appiccica sulle dita. Pane bianco masticato al profumo di tannino. Una festa piena di mostri e l’unico carino mi scova tra i capelli un pezzo di cena, pensa Dolly. Il non-mostro si toglie dal taschino un fazzoletto di cotone batista e lo offre con un sorriso. Dolly non deve sembrare tanto orribile. Col fazzoletto fa solo finta di pulirsi, per paura di sporcarlo. 
- Se stai cercando la tua amica l’ho vista allontanarsi in quella direzione. 
Anche la manica tweed indica in quella direzione e gli occhi la seguono; Dolly, non vista, fa la conchiglietta, accertando che neanche l’alito è tanto orribile.

Rape secche

- C’era quello.
- Chi?
- Dai, quello!
- Più precisa per piacere!
Mila sbuffa: - Quello con lo sguardo da triglia affumicata che fa il cuoco.
- Quello? Che dovrei farci di quello?
- È perfetto! La moda del momento! Ci scrivi un libro di ricette a quattro mani. Già mi vedo lo slogan: Rinfocola l’Amore con Triglia Flambée e Rape Gratinate!
- Mmm. Ricette. Con Triglia Affumicata. No, dai. No.
- Gastone, allora.
Silvia lancia un’occhiata assassina.
- Ritratto. Ritratto tutto. Gastone chi?
- Guarda. L’unico uso per cui è buono quell’idiota sarebbero hamburger, se non fossi Veg. E la legge vieta la macellazione di esseri umani. Antiprogressisti del cavolo!
- Essere umano? Gastone? Cos’è, un ritorno di fiamma?
- Mi sento buona oggi. Ho una lunga lista per Babbo Natale.
- Fidanzati nuovi?
- Per carità! Con la fatica che faccio a piazzare quelli vecchi! Mannaggia a quando mi hai dato quel dannato Manuale del Riciclo Relazionale!
- Beh, sembrava una buona idea!
- Buona per te che hai avuto tre, quattro cavalcanti, a voler essere generose!
- Mpff. Ha parlato Mata Hari.
Mila fa l’offesa. Silvia le lancia una palla di cotone grigiobluastra che si frantuma contro il ginocchio di Mila rivelandosi un superammasso di boxer e calzini.
- Hey!, fa Mila, sconcertata.
- Oh, scusa. Devo ancora catalogare e mettere a posto tutta la sezione Roba Usata e Dimenticata.
- Ecco, brava. Mettitici dentro pure tu!
- Dai, concentrati. Piero? - C’era quello.
- Chi?
- Dai, quello!
- Più precisa per piacere!
Mila sbuffa: - Quello con lo sguardo da triglia affumicata che fa il cuoco.
- Quello? Che dovrei farci di quello?
- È perfetto! La moda del momento! Ci scrivi un libro di ricette a quattro mani. Già mi vedo lo slogan: Rinfocola l’Amore con Triglia Flambée e Rape Gratinate!
- Mmm. Ricette. Con Triglia Affumicata. No, dai. No.
- Gastone, allora.
Silvia lancia un’occhiata assassina.
- Ritratto. Ritratto tutto. Gastone chi?
- Guarda. L’unico uso per cui è buono quell’idiota sarebbero hamburger, se non fossi Veg. E la legge vieta la macellazione di esseri umani. Antiprogressisti del cavolo!
- Essere umano? Gastone? Cos’è, un ritorno di fiamma?
- Mi sento buona oggi. Ho una lunga lista per Babbo Natale.
- Fidanzati nuovi?
- Per carità! Con la fatica che faccio a piazzare quelli vecchi! Mannaggia a quando mi hai dato quel dannato Manuale del Riciclo Relazionale!
- Beh, sembrava una buona idea!
- Buona per te che hai avuto tre, quattro cavalcanti, a voler essere generose!
- Mpff. Ha parlato Mata Hari.
Mila fa l’offesa. Silvia le lancia una palla di cotone grigiobluastra che si frantuma contro il ginocchio di Mila rivelandosi un superammasso di boxer e calzini.
- Hey!, fa Mila, sconcertata.
- Oh, scusa. Devo ancora catalogare e mettere a posto tutta la sezione Roba Usata e Dimenticata.
- Ecco, brava. Mettitici dentro pure tu!
- Dai, concentrati. Piero?  Potremmo riciclarlo?
- Piero, certo, è facile: è donatore universale!
Silvia appunta sul taccuino: Donatore universale.
- Tonf!, fa l’armadio.
- Cos’era?
Fa capolino una testa dall’anta: - Ehm. Ragazze?
- Dimmi Franco, fa Silvia.
- Queste grucce di metallo sulle spalle fanno venire un po’ i brividi, a starci appesi troppo a lungo. Non è che…
Silvia scuote la testa e appunta: Grucce di legno…

Appuntamento col lattaio

Ogni mattina tendo l’orecchio alla porta. È di pasta di legno rivestita di una sottile lamina d’acero. Ho paura che si sciolga, quando piove: tra il vialetto e la parete c’è solo un metro di veranda, ma la parola promette più di quanto non possa mantenere. A volte dalle fessure tra la parete di cartongesso e lo specchio ci passa tanta luce che mi sveglio. L’imbotte è ammaccato in più punti e certi giorni in cui fa molto caldo l’alluminio si piega e non riesco più nemmeno a chiudere i battenti. Insomma, l’ingresso della mia umile dimora è uno schifo ma la cosa ha anche qualche vantaggio.  <br /> tag Ogni mattina, quando tendo l’orecchio alla porta e la bicicletta clanga vicina, sempre più vicina, ogni mattina, quando trattengo il fiato come se il conducente della bicicletta possa sentirmi e predisporsi alla fuga, ogni santa mattina, quando brucio il caffè per la paura di distrarmi e voltare leggermente il mento e allungare il braccio proprio quando arriva l’unico momento della giornata che vale la pena di aspettare, ogni mattina, quando il lattaio conducente della bicicletta, distratto dalla musica pop che esplode dalle cuffie del suo iPod invece di poggiare delicatamente la mia di bottiglia di latte sulle scale la scaglia contro il legno, manco fosse la palla dell’ultima meta, ogni mattina in cui io afferro la maniglia, scanso il tappetino-welcome, mi lancio fuori tuffandomi di pancia nel disperato tentativo di prenderla al volo, ogni stracazzo di mattina in cui la bottiglia manca di un pelo la mia traiettoria e mi sguscia via, sfracellandosi contro al primo gradino, ogni mattina in cui io guardo i miseri resti della bottiglia di latte e il lattaio ignaro di tutto che pedala lontano svoltando l’angolo, ogni mattina io dico a me stesso: “Domani la prendo!” e ho un motivo per vivere.