venerdì 29 ottobre 2010

La mia prima macchina da scrivere


Quando ero ancora piccola, un giorno, dentro a un negozio di giocattoli, desiderai ricevere dai miei genitori una macchina da scrivere. Non so se ne avevo mai vista una, prima, non so esattamente quanti anni avevo. Forse otto, dice mia madre.   No, questo non è il classico topos dell’aspirante scrittore esordiente produttore di primi capolavori già in tenera età. Io, infatti, la macchina da scrivere non la ricevetti per niente. Credo che quel Natale ci sia stata una casa di Barbie, o la sua cucina rosa piena di attrezzi full-set, o un gioco da tavola di quelli che stimolano l’apprendimento. Non ha importanza. Quello che conta è che per me, per lungo tempo, quello è stato un ricordo doloroso. Uno di quei rimpianti patinati, amplificati dalla lontananza nel tempo, la nostalgia di quello che sarebbe potuto accadere, di quanti percorsi sbagliati mi sarei potuta risparmiare se quel Natale avessi ricevuto quel regalo, la mia prima, piccola, colorata macchina da scrivere.
Soprattutto, era doloroso uno scenario che poi si sarebbe ripetuto spesso, anche in seguito: a lungo c’è stata una discrepanza di giudizi, su quella bambina di otto anni.



Certuni dicevano a bocca aperta che fossi la più vivace, effervescente, creativa e fantasiosa bambina che avessero mai incontrato: leggendaria una rilettura in chiave picaresca di un Cappuccetto Rosso della durata di quattro ore ininterrotte che lasciò interdetta ed esausta un’amica dei miei genitori. Certi altri non dicevano niente, e se dicevano qualcosa era per rinfacciarmi che facevo la brava solo in presenza degli altri; e che riguardo alla macchina da scrivere, bisognava vedere se avesse potuto occuparsene Babbo Natale.
(È vero, tuttora faccio la brava in presenza degli altri, se c’è una meta o la prospettiva di un premio o una scadenza che incombe. Quando sono da sola, quando non mi aspetta nessuno, nel migliore dei casi una pigrizia imbattibile mi priva di ogni entusiasmo, a meno che un demone inatteso non s’impossessi di me).
Non aver ricevuto la mia prima macchina da scrivere non mi ha impedito di aver un normale sviluppo cognitivo o un’infanzia felice. Non ha niente a che vedere con un trauma, uno di quelli tanto innocui quanto à la mode delle rampanti famiglie piccolo borghesi, come restare chiusi nell’ascensore per mezz’ora o perdersi al supermercato – quei bei traumi da bar, insomma, innocui e indolori. Non mi ha impedito certo di essere una bambina felice e amata.
Non mi ha sicuramente impedito di scrivere; quando avevo dieci anni, il mio primo romanzo lo progettavo così: la storia di una quarantenne, felicemente sposata ma che allo stesso tempo si sente soffocare e un bel giorno decide di divorziare, accettando di affrontare i commenti malevoli del vicinato, e poi scappa in Africa. Questa tendenza a inventarmi personaggi così lontani dalla mia esperienza quotidiana da rasentare l’inverosimile la coltivo tuttora: in certe storie è del tutto astratta e velleitaria, in certe altre mi obbliga a una ricerca dettagliata e mi conduce in direzioni che non avrei mai nemmeno immaginato.
Ho continuato a scrivere anche dopo, ma ho continuato anche a fare altro. Dopotutto, se i miei genitori non mi comprarono quella maledetta macchina da scrivere non è perché fossero genitori distratti o poco sensibili nell’aiutarmi a coltivare le mie inclinazioni: è che le mie inclinazioni si spandevano a raggiera lungo assi di sperimentazione continua, instancabile.
Costruivo case sugli alberi, medicavo i compagni feriti, surgelavo pupazzi di neve casomai arrivasse la primavera, dipingevo in continuazione, cantavo spesso, recitavo poesie e, qualche volta, intere battute nella compagnia di teatro amatoriale dei miei genitori, salvavo uccellini caduti, seppellivo uccellini deceduti, d’estate, andavo a nuotare con mio padre e mia sorella nella piscina del paese vicino dove c’erano anche vespe da cacciare! Dovevo imparare l’uncinetto da mia nonna prima che morisse, dovevo preparare le coreografie dei balletti che avremmo offerto al pubblico dei genitori seduti a prendere il fresco nel cortile sotto casa, dovevo impedire che mia sorella si sfracellasse il piede nei raggi della ruota, di nuovo. C’erano anche i compiti, ovvio.
Come sarebbe stato possibile capire che direzione avrebbe preso quel vulcano lunatico di bambina? Il Natale dopo avrei chiaramente voluto un cavalletto per le tele, quello dopo ancora un impianto per il karaoke.
Non credo che i bambini siano adulti in miniatura, ma retroattivamente mi sento legittimata a dire che nella bulimia creativa della bambina che ero c’era già in nuce il disturbo esistenziale della ragazza che sono - e dell’adolescente che sono stata prima di arrivarci.
Ho scoperto che anche il mondo fuori era confuso e disarmato come me, ed è stato consolante. Per molto tempo e in parte anche adesso la dimensione collettiva, il senso di appartenenza diacronico, l’energia delle battaglie sono stati un farmaco generatore di senso, una risposta al bisogno di scongiurare la solitudine, in quegli anni più odiosa del pensiero della morte. In parallelo, c’è stato un flirt col teatro che ho creduto potesse essere la mia strada: ma nella mia piccola città ogni insignificante scintilla di bellezza, paragonata allo squallore dello sfondo, viene osannata come la reincarnazione di Venere, mentre invece, nella metropoli, si smarrisce, nel rumore generale. Non si tratta di una dinamica centro-periferia: lo squallore, insegna il tempo alla bambinadulta, è endemico e trans-regionale.
Ho frequentato l’università, a Palermo, mi sono laureata in Lettere Moderne. Mi sono appassionata di fotografia, linguistica, storia e storia dell’arte. Ho avuto febbri editoriali. Ho imparato a scrivere con maggior continuità. Ho continuato a ripensare, ogni tanto, a quell’adattamento de I Miserabili di Victor Hugo, scritto per un famoso attore e regista che poi non mi ha neppure citata nella sua locandina o alla bellissima Parker regalata dai miei amici del liceo, i primi fornitori ufficiali di strumenti, finiti in un paio di quadernetti Pigna dentro a un’oscena storia di adolescenti drogati.
Adesso frequento un master di scrittura creativa, sono fortunata, ho l’obbligo di scrivere molto. Ieri sera ho ripensato alla mia prima mancata macchina da scrivere. Ogni volta che ci penso mi viene un piccolo nodo alla gola. Stamattina ci pensavo ancora e ho chiamato mia madre: le ho detto, Mamma, ti ricordi di una volta che eravamo con papà e Giulia in quel negozio di giocattoli? Ti ho chiesto una macchina da scrivere? Quanti anni avevo?
Lei mi ha risposto con la voce dolce che le esce quando qualcosa le dispiace davvero: «Avevi otto anni. La volevi, vero piccina? E torna piccina che te la compro». Sembra uno scherzo? È vero invece. Sono sempre quella bambina di otto anni. A lungo ho saputo fare per breve tempo così tante cose che l’unica che sapessi fare veramente non mi sembrava neppure nell’orizzonte delle possibilità. D’altronde fare lo scrittore non è mica un lavoro vero! Ho otto anni e mia madre mi sta comprando una macchina da scrivere che costa disumani, incredibili sacrifici. Quando le spedisco un racconto da leggere, lei mi telefona e dice: «Brava la mia bambina!»
Ho lottato tanto contro di lei, per far sì che mi riconoscesse indipendente e adulta e adesso non vedo l’ora di sentire che pronuncia questa frase. Stupido, no?
La mia confusione nasce dal non sapere chi sono, neppure adesso che dovrei essere adulta: ma al momento ho ottimi strumenti per cercare di scoprirlo. Sono fortunata, ho ancora un po’ di tempo per farlo. Se avrò la fortuna di poter svolgere questo lavoro, avrò tempo anche tutta la vita.

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