domenica 21 novembre 2010

Uccello in gabbia canta per amore?


Ciccio Er Parola era intento a ripulirsi il tartaro dai denti e il suo sguardo vagava, di là delle sbarre, verso l’orizzonte di antenne: lo stuzzicadenti era quasi fradicio, logorato dall’uso.  Tom Timoteo stava incidendo la buccia di un mandarancio con l’aiuto di una linguetta di SevenUp, facendo attenzione a non dare troppo nell’occhio.
Annibale Mai giocava a backgammon, da solo.
Giosuè, al suo primo giorno, se ne stava seduto in un angolo, zitto e buono come una novizia in chiesa che vuol far bella figura con la badessa, vanità di vanità; si sentiva impacciato come mai in vita sua, era nervoso e aveva sete ma non osava chiedere nulla per paura che una sua frase diventasse il pretesto per innescare una discussione con quegli uomini. Era tutto un equivoco.
Si stava facendo ora di cena. Il secondino col carrello già avanzava nel corridoio del braccio T sezione nove del carcere di massima sicurezza “Cesare Beccaria”. Il menù, a giudicare dall’odore che invadeva l’aria ogni volta che il coperchio a tenuta stagna veniva sollevato, quel pomeriggio prevedeva merluzzo al limone e cavoletti di bruxelles, bolliti, senz’olio. Pane a volontà. Annusando più attentamente l’aria, si rilevavano tracce di prezzemolo, ma poche.
Giosuè stava seduto sul bordo del letto, in silenzio. Era senz’altro un equivoco. Non c’era alcun dubbio. Non era il caso quindi di offrire il fianco alle provocazioni di quegli avanzi di galera. Anche l’avvocato era stato chiaro: gli inquirenti non avevano in mano un cazzo. Non c’era verso di uscire su cauzione. L’udienza preliminare era fissata per il mercoledì successivo. Era sabato. Mancava poco: per l’avvocato, per Giosuè mancava un’eternità.
Giovedì contava i minuti. Venerdì non si dava pace. Sabato era oggi.

I poliziotti erano venuti ad arrestarlo alle sette di mattina. Non aveva potuto neppure accendere la piastra elettrica sotto la caffettiera, preparata la sera prima, come d’abitudine. I poliziotti erano stati inflessibili. Giosuè aveva solo quindici minuti per lavarsi la faccia e mettersi addosso qualcosa di comodo. Una tuta, consigliavano i poliziotti. Giosuè che in tuta non era mai andato neppure in palestra - non essendoci tra l’altro mai neppure andato - aveva optato per un jeans a sigaretta color grigio topo e un cardigan di lana, grigio perla. Tra i due, una maglietta di cotone color rosa antico, stampata a fiorellini. Adesso il jeans si era rivelato troppo stretto, il cardigan pungente e la fantasia della t-shirt a dir poco oltraggiosa della prepotente mascolinità dei compagni di cella, dei quali uno, Er Parola, lo puntava con l’intenzione. La doccia in carcere si faceva la domenica, incrociamo le dita.
Alle nove erano già state assolte tutte le formalità e gli effetti personali presi in consegna, assieme ai lacci delle scarpe e ai bottoni del cardigan – per precauzione, contro il rischio di un intenzionale soffocamento. Per lo stesso motivo, nel carcere di massima sicurezza “Cesare Beccaria” si servivano, per frutta solo pesche snocciolate, mandaranci e uva o, al limite, purea di mele.
Alle nove e venticinque, percorso il breve tratto di corridoio che univa l’area amministrativa ai locali di detenzione vera e propria e attraversato il piccolo cortile interno fino al portone del braccio T e oltrepassate otto porte a sbarre fino a quella della sezione nove, Giosuè aveva detto addio alla sua libertà e piacere di conoscerti ai tre loschi figuri con cui avrebbe – per poco – diviso una cella quattro metri per tre: Ciccio Er Parola lo aveva guardato con l’intenzione; Tom Timoteo gli aveva stretto la mano frettolosamente; quanto ad Annibale Mai, nemmeno s’era alzato a presentarsi: intento com’era a giocare a backgammon, da solo.
Giovedì l’aveva trascorso a guardare l’orologio. Venerdì, tutto il giorno, non aveva fatto altro che ripetersi che non stava accadendo a lui. Sabato, cioè oggi, cominciava a domandarsi se fosse il caso di cominciare a fraternizzare, non fosse altro che per raccogliere materiali. Chissà che non ci uscisse un bello spunto per lavorare a una nuova sceneggiatura. Almeno quello.

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