venerdì 12 novembre 2010

Cena in casa d'emigrati

Nonostante corressero brutti tempi, in casa Boccia non si dava mai il caso di una tavola delle feste che non fosse imbandita perlomeno a dovere. Più importanti delle regolamentazioni fiscali, delle vertenze sindacali, delle aliquote condominiali c’erano le sacre inviolabili eterne mediterranee leggi dell’ospitalità. Queste erano iscritte nel fardello genetico che il signor Boccia e sua moglie Elena si erano portati dietro partendosene dalle Puglie sposini freschi. A Binetto, il paesello di duemila anime in provincia di Bari nel quale Salvatore era nato nel 1951, si raccontava che, in tempo di guerra, uno stimato agricoltore fosse morto di stenti e privazioni dopo che un intero reggimento di bersaglieri aveva albergato in casa sua, dilapidando le riserve granarie e vitivinicole di un anno intero, e mandandolo in rovina. Quando il comandante del battaglione, avendo saputo dai braccianti che da bollire in pentola non restava che la gallina sull’aia e in rispetto dell’antico adagio per il quale l’ospite è maleodorante al terzo giorno, manifestò l’intenzione di dare agli uomini l’ordine di levare le tende, lo stimato agricoltore temette che in paese si potesse mormorare ch’egli fosse uomo di dubbio patriottismo e di mediocre asilo: fu così che, in un gesto inconsulto e disperato, strappò di mano all’ufficiale la carabina e puntò dritto al petto del volatile, col duplice vantaggio di farlo secco e cotto a puntino in un sol colpo, a detta dei paesani. 
Uomini di tal pasta avevano abitato le terre natie di Salvatore Boccia e, anche se questi non erano più i tempi e l’ospitalità diventava sempre più un disvalore - soprattutto nella provincia meneghina - comunque, almeno alle feste comandate, in casa Boccia non doveva mancare mai il companatico.
A questo rigido dettame s’era ispirata la signora Elena, allestendo il menù della cena. Se era vero, com’era vero, che il cane Chico avrebbe gioito del rosicchiare il suo ossobuco nella tranquillità del pavimento della cucina, ai commensali non sarebbe andata peggio: quello che Piero aveva creduto essere risotto – di animelle e verza, per la precisione – in realtà non era che una piccola parte del ripieno di una sontuosa faraona; uovo sodo e radicchio arrosto completavano la farcia. Come primo piatto, la signora Elena aveva servito un delicato tris di strscnat’ ‘ncap ‘a cavarola, con condimento di dentice fritto, broccoletti in pastella e seppioline di lago al Barolo. Tra il primo e il secondo, giacché si passava dal pesce alla carne, un leggero minestrone di fave per sciacquarsi la bocca e poi frutta e dolci a volontà: pandoro nero glassato, soufflé di pesche e amaretti, fruttini di marzapane, crema di mascarpone, tarallucci, vino. Così, con gran dispendio di calorie, si era giunti al momento del caffè. 

(Inizio del capitolo settimo)

4 commenti:

  1. Vuoi dell'Athenaion Politeia in pastella???
    fuggo spesso dai miei libri e mi rifugio piacevolmente nei tuoi scritti! :)

    baci da via bandiera senza finestre

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  2. Sono qui apposta per il tuo diletto, non chiedo altro!
    :)

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