giovedì 18 novembre 2010

Prologo



Stefano guardò in giù.
Ai piedi dell’alta quercia, la truppa di re Arturo al gran completo era schierata, in attesa del segnale. Gli alabardieri affilavano le asce, gli arcieri caricavan le arbaleste, i picchieri spiegavano le picche, e fino a dove era possibile distendere lo sguardo, dappertutto, si scorgevano eserciti in marcia, attirati dal richiamo dei suonatori di corno. Altri uomini, che si apprestavano a dar l’assedio. Gli sbandieratori sventolavano le insegne per far vento al re, accalorato da tutto quell’andirivieni, che gli stancava la vista.
«Chi più spende, meno spende, quando si tratta di belligerare», disse forte a Zaccaria, appollaiato sul ramo di sotto.
«Che volete farci? Ci s’emancipa, mio signore», rispose il sottoposto sovrastante.
«Vedo, vedo. Ah, che fiera gioventù!».
Era trascorsa ormai più di un’ora da quando i due fuggiaschi s’erano asserragliati in cima all’albero secolare, in compagnia del palafreniere Ruggero: di sotto borbogliavano pentoloni di pece e un gruppo di fanti trafficava intorno a un ariete di legno di ontano, con fare minaccioso. ‘Basta poco per cadere in disgrazia – rimuginava Stefano tra sé – È un attimo’. Il cavaliere Zaccaria volgeva lo sguardo corrucciato al cespuglio dietro al quale stavano imboscati i cavalli, Ciocio e Belforte, e sperava che il suo signore avesse un piano più che valido, per cavarsi da quell’impiccio.
«Infedele! Satanasso!», si sgolava il sire dabbasso.
«Ci toccherà di venir giù, presto o tardi», proferì Stefano, interrompendo le sue meditazioni. Il cavaliere Zaccaria non lo trovò un piano così ben congegnato, dopotutto. Di nascosto ai due nobiluomini, il giovane palafreniere Ruggero si sbellicava di risate, risuonandogli ancora nelle orecchie il tonante urlo del sovrano: «Adunanza sediziosa!», mentre scappavano a rotta di collo dalla Sala delle Armi, gettandosi da una finestra. 
«Non capisco – proseguì Stefano – come re Arturo possa temere noi rivoltosi. Con questo popò di armamentario! Guarda che razza di balista si trascina, laggiù!». Un’immensa catapulta sopraggiungeva, trainata da cento cavalli, ancora a molte tese di distanza ma inquietantemente rapida.
«Sono i rinomati eserciti del re, mio signore. – puntualizzò Zaccaria – Ogni nobilotto sborsa del suo, per la maggior gloria di Cristo»
«Con la sacchetta dei feudatari!». Di laggiù era tutto un gran rullare di tamburi, ma il sire udì lo stesso:
«Blasfemia! Che si scomunichi l’infedele! Seduta stante!», sbraitò il divino erede.
«E quando verrà il tesoriere?», chiedeva frattanto un barone a un marchese.
«Mai troppo presto – gli si diceva per risposta – sono fuori di un’enormità, nei riguardi dei miei fornitori!»
Stefano, con aria svagata, continuava a sguazzare nelle sue riflessioni: «Può mai l’elefante aver paura di un topolino? E anche loro, la gran massa titolata. Dovranno pur ricavarci qualcosa!»
«Si prestano – propose servile Zaccaria – in nome dell’ideale. Com’io, del resto!»
«Ruffiano. Ruffiano e trafficante. Dai retta, che di queste cose me ne intendo: uno di questi giorni, a belligerare saranno uomini al soldo. Allora per re Arturo sarà la fine! I soldati prezzolati da un momento all’altro baderanno ai fatti loro. Guerreggeranno per la ciccia e nulla più! Già adesso, guarda che aria annoiata hanno quei visconti, nell’angolo». Dabbasso, si sbadigliava.
«Mio signore, attento a quel che dite! Qui ci passano per lo spiedo senza manco il conforto di un po’ di salmoriglio!»
«Hai ragione, mio saggio Zaccaria. Del resto, avrei dovuto ascoltarti anche in merito a quella vertenza sindacale, contro il regio divieto di caccia».
«Mio signore, siate prudente: non siamo in contesto felice!»
«Giusto, Zaccaria. Il tavolo delle trattative è alla frutta»
«La congiunzione sfavorevole…»
«Non c’è trippa per gatti!».
Da sotto, salivano le rimostranze isteriche di re Arturo, rabbioso e furibondo:
«Ah, diavolaccio: azzarda ancora quel favellare da infedele! Schermidori! Punzonatelo di lance!».
La situazione cominciava a farsi spinosa. Se il giovane scudiero Ruggero, appollaiato tra due comodi rami nodosi, poteva crogiolarsi nel beato sonno delle classi subalterne, avendo affidato la sua stessa vita nelle mani dei due nobiluomini, non così quieto poteva dirsi Zaccaria. Dette una sbirciatina di sotto, facendo ben attenzione a non cadere, e quello che vide non gli sembrò per nulla rassicurante: le regali milizie avevano desistito con l’ariete, passando direttamente a una grossa e minacciosa motosega.
«Circolare, circolare! – disse un vigile urbano, disperdendo una folla di villici curiosi – Circolare, non c’è niente da vedere!». Del resto non era cosa di ogni giorno, veder dei ribelli sul ramo di un albero. Dopo tre scaramantici PaterAveGloria, così si rivolse al suo signore:
«Mi pare – esordì, rispettosamente – che non ci siano che tre modi, per trarsi da questo brutto impaccio…»
«Ti ascolto», disse Stefano, guardando lontano.
«…e il primo è presentare ricorso all’autorità competente…»
«Chissà se i cavalieri della tavola rotonda li faranno ancora. Non li ho più visti, davvero»
«…avendo cura di allegare tutta la certificazione richiesta, marche da bollo comprese».
«Ci vorrebbe una vacanza. No, meglio: ci vorrebbe di trasferirsi, e non tornare più!»
«Il secondo è fermarsi al semaforo, senza dare la precedenza»
«Mi sembra il minimo! Di questi tempi… Non ci resta che farci un po’ di strada, mio buon cavaliere. Prima che il mondo sia dei pedoni, e che diamine!»
«Terzo e ultimo, con il dovuto rispetto…».

Un filo d’aria gelata entrò dal finestrino, svegliandolo. Ci volle qualche secondo perché Stefano ricordasse chi era, e soprattutto dove aveva parcheggiato. Allungò le membra intorpidite nell’abitacolo, si asciugò un rivoletto di saliva sopra al mento e avviò il motore.

1 commento:

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    ;)

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