Stefano guardò in giù.
Ai piedi dell’alta
quercia, la truppa di re Arturo al gran completo era schierata, in attesa del
segnale. Gli alabardieri affilavano le asce, gli arcieri caricavan le
arbaleste, i picchieri spiegavano le picche, e fino a dove era possibile
distendere lo sguardo, dappertutto, si scorgevano eserciti in marcia, attirati
dal richiamo dei suonatori di corno. Altri uomini, che si apprestavano a dar
l’assedio. Gli sbandieratori sventolavano le insegne per far vento al re, accalorato
da tutto quell’andirivieni, che gli stancava la vista.
«Chi più spende, meno spende, quando si
tratta di belligerare», disse forte a Zaccaria, appollaiato sul ramo di sotto.
«Che volete farci? Ci s’emancipa, mio
signore», rispose il sottoposto sovrastante.
«Vedo, vedo. Ah, che fiera gioventù!».
Era trascorsa ormai più di un’ora da
quando i due fuggiaschi s’erano asserragliati in cima all’albero secolare, in
compagnia del palafreniere Ruggero: di sotto borbogliavano pentoloni di pece e
un gruppo di fanti trafficava intorno a un ariete di legno di ontano, con fare
minaccioso. ‘Basta poco per cadere in disgrazia – rimuginava Stefano tra sé – È
un attimo’. Il cavaliere Zaccaria volgeva lo sguardo corrucciato al cespuglio
dietro al quale stavano imboscati i cavalli, Ciocio e Belforte, e sperava che
il suo signore avesse un piano più che valido, per cavarsi da quell’impiccio.
«Infedele! Satanasso!», si sgolava il sire
dabbasso.
«Ci toccherà di venir giù, presto o
tardi», proferì Stefano, interrompendo le sue meditazioni. Il cavaliere
Zaccaria non lo trovò un piano così ben congegnato, dopotutto. Di nascosto ai
due nobiluomini, il giovane palafreniere Ruggero si sbellicava di risate,
risuonandogli ancora nelle orecchie il tonante urlo del sovrano: «Adunanza sediziosa!»,
mentre scappavano a rotta di collo dalla Sala delle Armi, gettandosi da una
finestra.
«Non capisco – proseguì Stefano – come re
Arturo possa temere noi rivoltosi. Con questo popò di armamentario! Guarda che
razza di balista si trascina, laggiù!». Un’immensa catapulta sopraggiungeva,
trainata da cento cavalli, ancora a molte tese di distanza ma inquietantemente
rapida.
«Sono i rinomati eserciti del re, mio
signore. – puntualizzò Zaccaria – Ogni nobilotto sborsa del suo, per la maggior
gloria di Cristo»
«Con la sacchetta dei feudatari!». Di laggiù
era tutto un gran rullare di tamburi, ma il sire udì lo stesso:
«Blasfemia! Che si scomunichi l’infedele!
Seduta stante!», sbraitò il divino erede.
«E quando verrà il tesoriere?», chiedeva
frattanto un barone a un marchese.
«Mai troppo presto – gli si diceva per
risposta – sono fuori di un’enormità, nei riguardi dei miei fornitori!»
Stefano, con aria svagata, continuava a
sguazzare nelle sue riflessioni: «Può mai l’elefante aver paura di un topolino?
E anche loro, la gran massa titolata. Dovranno pur ricavarci qualcosa!»
«Si prestano – propose servile Zaccaria – in
nome dell’ideale. Com’io, del resto!»
«Ruffiano. Ruffiano e trafficante. Dai
retta, che di queste cose me ne intendo: uno di questi giorni, a belligerare
saranno uomini al soldo. Allora per re Arturo sarà la fine! I soldati
prezzolati da un momento all’altro baderanno ai fatti loro. Guerreggeranno per
la ciccia e nulla più! Già adesso, guarda che aria annoiata hanno quei
visconti, nell’angolo». Dabbasso, si sbadigliava.
«Mio signore, attento a quel che dite! Qui
ci passano per lo spiedo senza manco il conforto di un po’ di salmoriglio!»
«Hai ragione, mio saggio Zaccaria. Del
resto, avrei dovuto ascoltarti anche in merito a quella vertenza sindacale,
contro il regio divieto di caccia».
«Mio signore, siate prudente: non siamo in
contesto felice!»
«Giusto, Zaccaria. Il tavolo delle
trattative è alla frutta»
«La congiunzione sfavorevole…»
«Non c’è trippa per gatti!».
Da sotto, salivano le rimostranze
isteriche di re Arturo, rabbioso e furibondo:
«Ah, diavolaccio: azzarda ancora quel
favellare da infedele! Schermidori! Punzonatelo di lance!».
La situazione cominciava a farsi spinosa.
Se il giovane scudiero Ruggero, appollaiato tra due comodi rami nodosi, poteva
crogiolarsi nel beato sonno delle classi subalterne, avendo affidato la sua
stessa vita nelle mani dei due nobiluomini, non così quieto poteva dirsi Zaccaria.
Dette una sbirciatina di sotto, facendo ben attenzione a non cadere, e quello
che vide non gli sembrò per nulla rassicurante: le regali milizie avevano
desistito con l’ariete, passando direttamente a una grossa e minacciosa
motosega.
«Circolare, circolare! – disse un vigile
urbano, disperdendo una folla di villici curiosi – Circolare, non c’è niente da
vedere!». Del resto non era cosa di ogni giorno, veder dei ribelli sul ramo di
un albero. Dopo tre scaramantici PaterAveGloria, così si rivolse al suo
signore:
«Mi pare – esordì, rispettosamente – che
non ci siano che tre modi, per trarsi da questo brutto impaccio…»
«Ti ascolto», disse Stefano, guardando
lontano.
«…e il primo è presentare ricorso
all’autorità competente…»
«Chissà se i cavalieri della tavola
rotonda li faranno ancora. Non li ho più visti, davvero»
«…avendo cura di allegare tutta la
certificazione richiesta, marche da bollo comprese».
«Ci vorrebbe una vacanza. No, meglio: ci
vorrebbe di trasferirsi, e non tornare più!»
«Il secondo è fermarsi al semaforo, senza
dare la precedenza»
«Mi sembra il minimo! Di questi tempi… Non
ci resta che farci un po’ di strada, mio buon cavaliere. Prima che il mondo sia
dei pedoni, e che diamine!»
«Terzo e ultimo, con il dovuto rispetto…».
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